I profondi cambiamenti della società, della cultura, delle dell’alimentazione e della medicina, degli stili di vita e delle tecnologie, hanno portato ad un progressivo allungamento della vita. Se è vero che l’uomo per sua natura ambisce all’immortalità, talvolta in senso fisico (di qui la ricerca dell’elisir di lunga vita, di prodotti dell’eterna giovinezza o il curioso fenomeno della crioconservazione) tal altra in senso ultra-fisico (con la fama, la discendenza, le gesta eroiche, la religione…), ci sono però, nella cultura di ogni tempo e luogo, seri moniti sulle conseguenze dell’immortalità (specie se intesa in senso fisico e non correlata all’eterna giovinezza, Swift, con i suoi Struldbrugs, relitti umani costretti a vivere per sempre senza smettere di invecchiare, docet).
Se a ciò si aggiunge il tabù della morte alimentato e drammatizzato da una società, a lungo materialistica e che ha cercato di esorcizzare la morte stessa fingendo che non esista piuttosto che di farsene una ragione, lo scenario si rivela in tutta la sua complessità.
Ma nuove evidenze testimoniano che qualcosa sta, più o meno lentamente, cambiando anche in questo aspetto della vita umana: il rapporto con la morte.
Una recente ricerca ha scoperto che solo il 15% Continua a leggere