Felicità è volere il dovere per averne piacere

La felicità non è fare tutto ciò che si vuole, ma volere tutto ciò che si fa (Friedrich Nietzche)

La felicità non è una libertà a tutti i costi e noncurante degli altri, nè è anarchia, anomia (a-nomos) mancanza di leggi, di regole, di norme. 

Vivere allo stato brado, senza vincoli o reposnabilità potrebbe essere una bella utopia, un wishful thinking alla Power&Flower ma non è perseguibile all’interno di una società reale. Essendo menbri di un gruppo, la nostra libertà non può nè deve ledere l’altrui, pena l’estromissione dalla comunità stessa. E, come, ben insegnano gli aborigeni, fuori dalla tribù, nella giungla, nel deserto, nella tormenta, è arduo sopravvivere. 

Supposto, pure che la nostra libertà non sia limitata da nessuna istituzione primaria (famiglia) o secondaria (istituzioni), è noto, Platone e Freud docent,  che la nostra auriga-esistenza è trainata verso l’alto dal cavallo bianco del super-ego, e non dal nero, riottoso dell’inconscio, incapace di trovare il piacere in ciò che lo limita o non ne soddisfa gli istinti.

Così, la felicità non è fare tutto ciò che si vuole. Ma è riuscire a tramutare il dovere in volere e piacere. “Volere ciò che si fa”: essere autonomi, padroni (e, per ciò stesso anche responsabili)delle proprie azioni, del proprio destino.

Non a caso, da Sant’Agostino al Taoismo, in modi diversi, si ritrova un invito ad assecondare il proprio destino così da raggiungere la massima realizzazione del proprio io e, quindi, anche la felicità.

Il discorso è, come sempre, farcito di un pratico buon senso: quando imponiamo qualcosa a qualcuno, la sua reazione tende ad essere diametralmente opposta alla desiderata, ma se riusciamo a coinvolgerlo, ad entusiasmarlo, a convincerlo che ne valga la pena,… allora sposa la causa, la rende sua, non la vive più come un peso, un obbligo ma qualcosa di naturale, giusto, buono,… e la porta a termine, felice del suo traguardo. 

Analogamente, solo quando riusciamo a far coincidere il nostro dovere con il volere, compiamo qualcosa perchè ci crediamo davvero, è più facile superare gli ostacoli, non demordere, e raggiungere l’obiettivo, quindi esserne appagati, orgogliosi, compiaciuti, soddisfatti e, naturalemnte, anche felici.

3 Risposte to “Felicità è volere il dovere per averne piacere”

  1. Le persone tendono a non rendersi conto di poter essere artefici della propria vita e restano in una condizione interiore (emotiva, spirituale) di passività. Subiscono, pur se talvolta si rendono conto che c’è qualcosa che non va nella faccenda.
    Probabilmente perché è più semplice mettere al di fuori di sé le difficoltà e le responsabilità (il locus o control della psicologia) perché se qualcosa va male, in un certo senso, ci si sente puliti. E tremendamente insoddisfatti ed in preda alle emozioni negative.

    Si parla molto di responsabilità, di presa di coscienza, di partecipazione attiva degli individui alle “pratiche sociali”, ma ho spesso l’impressione che tutto ciò valga fino alla punta del proprio naso. Poi quando si tratta di entrare dentro di sé le cose cambiano e si fanno più difficili ed allora forse forse la percentuale di “(pro)attivi” si riduce consistentemente.

    Varrebbe forse la pena di ricordare una preghiera utile per affrontare la vita, il dovere, il piacere, il volere ed il non?
    Mi riferisco alla preghiera che dice:
    “dammi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, la forza di cambiare quelle che posso e la saggezza per capire la differenza.”

    Giusto una riflessione serale 🙂

    • Cara Sara, sono perfettamente d’accordo con le tue osservazioni e credo anch’io che quando passiamo nel mondo interiore tutto diventi più difficile…
      La tua preghiera è proprio sulla stessa linea del pensiero dei grandi padri della Chiesa ma anche dei grandi Maestri spirituali Orientali. La serenità di accettare ciò che va al di là dei nostri limiti, delle nostre forze è un passo importante nella nostra crescita perchè implica la forza di mettere in scacco la supponenza, il narcisismo, la boria, la superbia che ciascuno ha in sè e che soffocano il tenero virgulto dell’umiltà, della speranza, della felicità. Tante volte confondiamo la preghiera con un tentativo di sedurre, di impietosire, di plagiare Dio. Un atto di arroganza che lo vorrebbe ridurre ad una macchina per esaudire i nostri desideri. E questo vale indipendentemente dall’essere Cristiano o Buddista, Musulmano o Induista. Allora diventa importante domandarci se siamo sicuri che quello che gli domandiamo sia davvero il meglio per noi? E per rispondere è necessario un percorso interiore, una capacità di mettersi in silenzio ed ascoltarsi, di capirsi.
      Spesso mi capita di femarmi gettare uno sguardo sulla mia vita e mi accorgo che, quasi magicamente, anche quanto, in precedenza, pareva casuale, privo di senso, ne ha uno. Così, ho imparato a combattere per quanto mi sembra abbia davvero un valore ma anche ad accettare le sconfitte, a ricercarne il significato, a dare loro un senso, una direzione…

  2. Vero, sono molto d’accordo.
    Invece di “pretendere” bisognerebbe fare il meglio che si può per raggiungere i propri obiettivi, ma accettare il corso delle cose. Se proprio non riusciamo ad andare in una direzione, chiediamoci “è davvero quella giusta o tutti questi ostacoli sono in realtà delle benedizioni?”

    Esiste un filo d’oro che collega gli eventi della nostra vita e, se con un po’ di sana umiltà, ci fermiamo a porci delle domande, ci rendiamo conto che fatti e decisioni apparentemente insensati guadagnano significato ed altro non solo che il frutto delle scelte (o non-scelte) di ogni giorno.

    Personalmente, quando sono in dubbio su qualche azione, ricordo questo consiglio: “Is it true? Is it necessary? Is it kind? Ask yourself those simple questions every time you are in doubt about any action.” (Harold Klemp)
    🙂

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